Pierantonio Volpini

Il narcisismo occultato
di Marco Lorandi

A un primo approccio, entrando nell’immaginario di Volpini, peritamente elaborato, in questa “camera con vista”, dalla destrezza e furbizia di conoscitore dei mass-media, si mitizza e demitizza al contempo la cultura antica, l’estro saviniano con l’alone metafisico-surreale. Ci accorgiamo poi di essere di fronte ad uno spazio più che inventato, riciclato, in cui l’ironia della citazione (e spesso e volentieri del citazionismo esasperato, anche di uso corrivo) convive con una specie di illusionismo ottico tra pittura e scultura, reale/irreale, di atteggiamento che pare essere grave e, subito, si scioglie in divertissement, in gioco infantile e gaio.
Per Volpini non si tratta tanto di “inscenare la vita”, ma, piuttosto, di “ricreare” il suo doppione artificiale, riproducibile e riprodotto in numerose copie da offrire ad un pubblico più vasto che ritrova parte di sé stesso raffigurato dentro gli oggetti di un ambiente quotidiano consono a lui, solo apparentemente destrutturato ed estraniante, anzi, talvolta persino ammiccante. Più che l’opera ci sembra sia importante la visione dell’artista, il suo rimando speculare ai consumi quotidiani che si tramutano in un lessico anche “desueto” nel momento in cui vengono “recitati” come proiezione del proprio io, nell’ambiguità tra ciò che siamo e ciò che appariamo in un voluto “camouflage”, di “cambio di pelle” ma non di sostanza.
E’ significativo, infatti, che nella sua ambientazione ci sia una specularità del “doppio” tra immagine riportata nel “quadro d’interno” ed il ribaltamento oggettivo tridimensionale; a questo si aggiunga, in un eccesso di narcisismo didascalico, la presentazione della supposta idea originaria nella maquette “in primo piano” come percezione di un passaggio dal piccolo (scultura, teatrino, “sculpture de chambre”) alla realizzazione pittorica come proiezione bidimensionale sulla parete di fondo e suo rimando alla struttura, a grandi dimensioni, della installazione dove pittura, scultura e “sceneggiatura”sembrano convivere e colloquiare. L’immagine reale dunque scompare nella sua moltiplicazione triplicata (ma potrebbe aumentare ad libitum). Ma è una immagine autentica che nasce da una fantasia personale, da una suggestione profonda del proprio es? Oppure l’emergere di un pattern serial/visivo già prestabilito dai mass-media e da Volpini riproposto come nuovo?
Propendiamo per la seconda ipotesi, perché alla trasposizione nella opera di una soggettiva dimensione immaginaria, l’artista preferisce porre la “mitologia” di un repertorio iconografico codificato da altri su cui innestare il proprio intervento (del resto già ampiamente verificabile in ambientazioni come “La casa di Pierantonio” o “La camera dei miei sogni”, entrambe del 1986). Anche l’impiego del “vettore” zigzagante che attraversa in diagonale l’ambiente, oltre a ricordare una cifra segnica di matrice colta (si pensi solo al mito di Giove, i suoi fulmini contro la ribellione dei Giganti), ridotta a pura notazione cromatica di ritaglio di “cartone “, “infantile-futurista”, introduce, speciosamente, una nota sinistra nella composizione.
A ben guardare l’intervento “magico” di una possibile metamorfosi dell’accadimento svanisce nel calembour di citazioni, anche emozionante, ma essenzialmente ludico ed autoriflettentesi. Ciò cui crede l’artista non è tanto la visione che si manifesta, quanto l’abilità del superego di dominare una pluralità di immaginarii appartenenti alla conoscenza comune e naturalmente alla sua capacità di manipolarli con sorprendente istrionismo.
Giova, per altro sottolineare, che quanto più l’immagine di Volpini sembra distanziarsi in uno sfondo teatrale oggettivo, tanto più si svela l’istanza ripetitiva dell’unità narcisistica che si moltiplica nelle referenzialità quotidiane. Si vedono la tripartizione della triangolazione spaziale, della scacchiera del proscenio, del fulmine ripetuto e, in sequenza, quella degli altri oggetti senza mutare, pur nell’eventualità variabile delle cose, la “finzione” da rappresentare. A differenza dell’immaginario della Cavallotti e di Mazza che svelano un fondo autobiografico narcisistico e veritiero, in Volpini, il “poiein” artistico sembra ridursi ad una iterazione da sè camuffato e “travisato” in operazione intellettuale, a volte, anche lambiccata in cui il sentimento è azzerato da un’immagine come volontà di potenza mimetica.